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24 i - didone abbandonata


alle sponde d’Italia oggi mi chiama.
La mia lunga dimora
pur troppo degli dèi mosse lo sdegno.
Didone. E cosí fin ad ora,
perfido! mi celasti il tuo disegno?
Enea. Fu pietá.
Didone. Che pietá? Mendace il labbro
fedeltá mi giurava,
e intanto il cor pensava
come lunge da me volgere il piede!
A chi, misera me! darò piú fede?
Vil rifiuto dell’onde,
io l’accolgo dal lido; io lo ristoro
dalle ingiurie del mar: le navi e l’armi
giá disperse io gli rendo, e gli do loco
nel mio cor, nel mio regno; e questo è poco.
Di cento re per lui,
ricusando l’amor, gli sdegni irrito:
ecco poi la mercede.
A chi, misera me! darò piú fede?
Enea. Fin ch’io viva, o Didone,
dolce memoria al mio pensier sarai;
né partirei giammai,
se per voler de’ numi io non dovessi
consacrare il mio affanno
all’impero latino.
Didone. Veramente non hanno
altra cura gli dèi che il tuo destino.
Enea. Io resterò, se vuoi
che si renda spergiuro un infelice.
Didone. No: sarei debitrice
dell’impero del mondo a’ figli tuoi.
Va’ pur, siegui il tuo fato;
cerca d’Italia il regno; all’onde, ai venti
confida pur la speme tua. Ma senti:
fará quell’onde istesse