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214 | iii - catone in utica |
Marzia. Crudel! da me che brami? È dunque poco
quanto ho sofferto? Ancor tu vuoi ch’io senta
tutto il dolor d’una partenza amara?
Lo sento sí, non dubitarne: il pregio
d’esser forte m’hai tolto. Invan sperai
lasciarti a ciglio asciutto. Ancora il vanto
del mio pianto volesti: ecco il mio pianto.
Cesare. Aimè! l’alma vacilla.
Marzia. Chi sa se piú ci rivedremo, e quando:
chi sa se il fato rio
non divida per sempre i nostri affetti.
Cesare. E nell’ultimo addio tanto ti affretti?
Marzia. Confusa, smarrita,
spiegarti vorrei
che fosti..., che sei...
Intendimi, oh Dio!
Parlar non poss’io:
mi sento morir.
Fra l’armi se mai
di me ti rammenti,
io voglio... Tu sai...
Che pena! Gli accenti
confonde il martír. (parte)
SCENA III
Cesare, poi Arbace.
Cesare. Quali insoliti moti
al partir di costei prova il mio core!
Dunque al desio d’onore
qualche parte usurpar de’ miei pensieri
potrá l’amor?
Arbace. (nell’uscire si ferma) (M’inganno,
o pur Cesare è questi?)
Cesare. Ah! l’esser grato,