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112 ii - siroe


Emira. Perfido! e in questa guisa
di mentita virtú copri il tuo fallo?
A chi giovar pretendi? Hai giá tradito
l’offensore e l’offeso. Ei non è salvo;
interrotto è il disegno;
e vanti per tua gloria un foglio indegno?
Traditore! io vorrei...
Ah! quest’impeti miei, (a Cosroe)
signor, perdona: è il mio dover che parla.
Perché son fido al padre,
io non rispetto il figlio:
è mio proprio interesse il tuo periglio.
Laodice. (Che ardir!)
Cosroe.  Quanto ti deggio, amato Idaspe!
Impara, ingrato, impara. Egli è straniero,
tu sei mio sangue; il mio favore a lui,
a te donai la vita; e pure, ingrato,
ei mi difende, e tu m’insidi il trono.
Siroe. Difendermi non posso, e reo non sono.
Medarse. L’innocente non tace: io giá parlai.
Emira. Via! Che pensi? Che fai? Chi giunse a tanto
può ben l’opra compir. Tu non rispondi?
So perché ti confondi. Hai pena e sdegno
che del tuo core indegno
tutta l’infedeltá mi sia palese:
perciò taci e arrossisci,
perciò né meno in volto osi mirarmi.
Siroe. Solo Idaspe mancava a tormentarmi!
Cosroe. Medarse, quel silenzio
giustifica l’accusa.
Medarse.  Io non mentisco.
Emira. Se un mentitor si cerca,
Siroe sará.
Siroe.  Ma questo è troppo, Idaspe.
Non ti basta! Che vuoi?
Emira.  Vuo’ che tu assolva
da’ sospetti il mio re.