Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
314 |
bocca piena d’erba con cui tentavano di prolungar la vita a guisa di bruti. Vennero dopo le epidemie, conseguenza necessaria della guerra e della fame. S’aggiungeva a questi mali la discordia civile.
I giacobini fatti repubblicani insolentivano contro i realisti, gli opprimevano d’imposizioni, gli accusavano presso i tribunali, e ne obbligavano non pochi a spatriare. Anche in Ceva, come altrove succedevano rappresaglie e vendette tra i due partiti, e in certi cervelli più esaltati s’annidava una buona dose di pretofobia, volendosi anche in questo imitar l’esempio dei terroristi di Francia che fecero tanta strage di quel venerando Clero.
Mi fu narrato a questo proposito da un buon vecchio degno di fede e testimonio oculare del successo un aneddoto interessante, che prova sino a qual punto di barbarie e di ferocia possa arrivar un cuor di donna.
Moriva in Castello li 20 aprile 1804, il chierico accolito Michele Davico. Suonandosi a lungo il segno del suo trapasso, e infastidito da questo scampanio un caporione repubblicano del governo provvisorio, che pretendeva il titolo di presidente, chiamò a sé certa Maddalena Caleri, vedova del becchino, a cui successe nell’impiego; le promise una buona mancia se gli procurava la testa del defunto. Avendo lasciato intendere che se poteva avere una testa d’un prete voleva disfarsi di tutti i neri inalberandola alla pubblica esecrazione.
Questa donnuccia che a giusto titolo era conosciuta sotto il nome di carogna, accettò l’infame commissione.
Sosteneva in allora la carica di sindaco il signor Lorenzo Davico persona onorata e di egregie doti fornito; informato del nefando progetto incaricò lo stesso mio narratore, a tener d’occhio la becchina.
Portatosi il cadavere al cimitero in sull’imbrunire, salì l’esploratore su di un muro d’onde poteva scorgere le operazioni della becchina. A notte avanzata torna questa al