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Non cessarono però dal mover guerra ai Branda che erano quei del partito monarchico ed affetto a casa Savoia. Ricorsero al commissariato francese stabilito in Mondovì. Accusarono la civica amministrazione di malversazione ed ottennero che si fosse spedito a Ceva un giovane commissario di cui non si conservò il nome.

Chiamò questi a consiglio la civica amministrazione. Luigi Carrara uomo di talento, ma di sentimenti esaltati e caldo partigiano della repubblica, seduto a fianchi del commissario lesse un lungo discorso in cui incolpò la civica amministrazione di parzialità, d’ingiustizia nel fissare le tasse, e di dilapidazione del pubblico erario.

L’amministrazione si giustificò pienamente dalle fattele accuse. Il commissario se ne dimostrò soddisfatto e terminò la seduta con un discorso enfatico in favor della repubblica. Nel far l’enumerazione dei doveri d’un buon repubblicano arrivò a dire che quando si tratta del ben pubblico il fratello non deve perdonarla al fratello, l’amico all’amico, il padre al figlio, ed il figlio al padre, ed ebbe l’impudenza di asserire che lui stesso pel bene della repubblica aveva fatto ghigliottinare suo padre; ne inorridì l’assemblea, e si sciolse sull’istante.

Sentendo i Giacobini che s’erano in Francia ed in alcune citta del Piemonte innalzati sulle piazze alberi detti di libertà, tanto s’agitarono e tanto dissero che il comandante Miollis ordinò che quest’albero sormontato dal bonetto frigio e dal vessillo tricolore fosse innalzalo solennemente avanti il palazzo civico.

Fra grida incessanti, forsennate acclamazioni e canti patriotici si incominciò a festeggiare questo fantasma di sognata libertà. Il comandante Miollis colla civica amministrazione diede principio alle danze attorno all’albero.

Furono invitati a suon di tromba a goder di questa festa preti, frati, nobili e plebei.

Il più vile mascalzone invitava la più nobile e rispettabile