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tazione si vide più volte a piangere sulle sventure di quella calunniata donna, vittima dei raggiri, e della perfidia del scelerato confidente, del troppo credulo suo marito.

Le tragedie del Marenco furono altamente encomiate dall’autore della Storia delle Repubbliche Italiane, Sismondi, dal celebre Manzoni, dal tragico Nicolini, dal sommo critico Tommaseo, e dal filosofo Gioberti.

In un viaggio fatto a Parigi trovandosi in casa dell’ambasciatore Sardo, ricevette in persona i più vivi encomii dei celeberrimi Alessandro Dumas, Eugenio Scribe, e Vittore Hugo coi quali sedette a lieta mensa, e gli furono pur anche espresse da quei sommi, lusinghiere congratulazioni pel suo favellar sciolto ed aggraziato nell’idioma francese.

Lo stile del Marenco è sempre puro ed elegante, il verso sonoro e fluido, i sentimenti italianissimi, morali, religiosi, ed elevati.

Si discostò dal fare classico degli antichi tragici, ma nel suo nuovo genere di comporre ebbe un esito felice e trovò la maniera di conciliare il troppo rigido classicismo col troppo libero romanticismo.

Scrisse le sue tragedie nel silenzio delle domestiche mura, e ne preparava la tela con lunghe passeggiate sulla sponda solitaria del Tanaro, e nelle ore più fresche del mattino.

Al suo ventesimo sesto anno si era stretto di sacro nodo, con la nobile donzella Luigia Cantatore del Pasco Monregalese, donzella quanto avvenente di forme altrettanto ricca di egregie doti, di cuore e di spirito. Quanto fosse il Marenco lieto di quest’imeneo, lo lasciò scritto nelle sue memorie di famiglia dicendo:

«Strinsi un nodo, che fu a me principio di pace dell’animo, di prole numerosa, e di felicità coniugale.» In pegno della sua tenerezza verso sì amabile sposa, le dedicò la prima edizione delle sue tragedie.

Fu padre tenero e solerte nell’educare la sua numerosa famiglia insinuando nelle tenere menti dei vispi ragazzi