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rimasto allo Scioa inutilmente, dovette ritornarsene in Italia senza aver nulla concluso.
Poco prima del Piano era pure partito per lo Scioa Mangascià per far atto di sommissione al Negus e per domandargli quella corona regale del Tigrè che in mancanza della imperiale etiopica gli stava pur tanto a cuore.
Se non che questa sua speranza era rimasta un pio desiderio.
Da una parte ras Oliè, fratello della regina Taitù e rivale di Mangascià, aveva ottenuto dalla sorella promessa che mai la corona regale sarebbe posata sul capo del figlio di re Giovanni; dall’altra l’ambiente della corte scioana era tutt’altro che ben disposto contro Mangascià, che era accusato di aver tradito la causa nazionale gettandosi in braccio agli Italiani.
Quando, secondo le consuetudini abissine, Mangascià si presentò colla pietra al collo davanti a Menelik, questi non solo lo accolse freddamente e lo coprì di rimbrotti per aver stretta amicizia cogli Italiani, ma lo avvertì che prima di pretendere la corona pensasse a conquistarsi il regno che era stato invaso dai nemici.
Nè certo migliori furono le accoglienze fatte a Mangascià dalla regina Taitù e dai suoi consiglieri costituenti alla corte scioana il così detto partito tigrino, che soffiava sempre nel fuoco contro l’Italia. Essi lo posero in dileggio, e lo spinsero alla riabilitazione pungendolo con ogni sorta di sarcasmi.
Invece a ras Alula, che aveva accompagnato Mangascià allo Scioa, e che era rinomato come