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in Lombardia, a quei clie iniziarono il moto di Sicilia, a quei che imbaldanzirono e sommossero gli animi in Napoli, a Garibaldi che li guidò, al popolo che secondò Garibaldi, il rapido accentramento della Nazione in Roma — l’emancipazione di V^enezia — il patto nazionale che deve essere battesimo alla nuova vita d’Italia. E tutto questo non era solamente speranza: era diritto: era condizione di vita a un popolo che sorge e intende a costituirsi Nazione: non poneva menomamente a pericolo la Monarchia; la confermava anzi, ed arditamente e lealmente iniziatrice per mezzo secolo.
Dai rivolgimenti che dovevano sollecitamente dargli condizioni siffatte di vita, il popolo Italiano ha invece raccolta una libertá mutilata dall’arbitrio che s’esercita ogni giorno a danno dei diritti dell’individuo — la negazione del voto alla maggioranza del Paese, accarezzata purché acclamasse alla Monarchia, respinta da ogni potere politico subito dopo — un Parlamento che non rappresenta, in conseguenza di quella negazione, se non un solo elemento d’Italia, servilmente devoto ai cenni d’un ministro qual che ei siasi, muto a tutte le questioni che toccano la vita e la morte del paese, diseredata perfino non d’individui oppositori, ma d’una opposizione che rappresenti collettivamente un disegno, una scuola politica — leggi date in tempo oggimai remoto, e in circostanze diverse ad una provincia ed adattate a tutte le altre senza riguardo ai loro interessi e alla nuova vita manifestatasi — un’amministrazione inutilmente numerosa, inetta in parte, in parte composta di uomini appartenenti alle fazioni retrograde innestatevi da una falsa tattica di prematura conciliazione, e tutti pedantescamente seguaci