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V. Quando? A quale ora?

Quella istituzione mondana, irta di difetti e piena di virtù che era, che è il giorno di ricevimento, istituzione che aveva, oramai, tale ampia base, da estendersi dalle più alte cime della società sino alle radici più umili, questo giorno di ricevimento, che infieriva largamente, oramai, anche in provincia, comincia a pesare come un giogo, sulla esistenza delle nostre signore. Varie di esse, se non molte, ancora, a Londra, a Parigi, donde ci venne questa moda del giorno fisso, sono seccate dei suoi gravi svantaggi e non ne vedono più, accecate dal desiderio della novità e dal desiderio di una libertà relativa, i serii vantaggi: e hanno trovato una novella forma di ricevere. Esse dicono, e hanno ragione, che il giorno implica una schiavitù e una fatica intollerabile: che, a quel modo, si ha ogni mercoledì, ogni sabato, ogni giorno che Dio manda in terra, una folla di gente nel proprio salone, e che si finisce per non vedere i propri amici e per non parlare con le proprie amiche. Difatti, quando si ha un largo giro di conoscenze, da novembre a maggio, quanti mercoledì di un’amica si possono seguire, se non due o tre, in tutto? Difatti, calcolati i viaggi, le assenze, le emicranie, le grandi feste, le grandi circostanze, i giorni diventano un ritrovo vano e vuoto, di persone indifferenti, non è vero? Ma ci sono gli altri giorni della settimana, per vedere coloro che sono simpatici, che sono piacevoli, che sono graditi, che sono amati! Ebbene, restiamo ogni giorno, - dicono varie signore, di Londra, di Parigi - restiamo, ogni giorno, un’ora, due ore, a casa, per tutti coloro che ci vengono a visitare. E la novella usanza, piena di lusinghe, ma


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