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trina d’argento: sul tappeto smirniota, dai piccoli fiori, sui tavolini dove caddero fra le singolari cose che il lusso dell’Estremo Oriente manda dovunque vi sia uno spirito strano, innamorato delle forme artistiche. Era una pioggia di rose fresche, vivide. Donna Maria di Lanciano, quando ebbe buttata via l’ultima rosa, si gittò sulla grande poltrona e dondolandosi, col capo arrovesciato, schiacciava le rose sotto i bastoni ricurvi della poltrona. Don Francesco, seduto accanto a lei, sopra una seggiola bassa, aveva preso una mano sottile, sottile, dove scintillava, attaccato a un impercettibile filo d’oro, un enorme smeraldo, verde come gli occhi della dama.

— Siete stato a casa Gallicano, ieri sera, Francesco; — domandò ella, con voce bassa, velata, profonda.

— Sì... — mormorò lui, distratto, preso dalla adorazione di quella molle mano.

— Avete ballato?

— No.

— Giuocato?

— No, non giuoco.

— E che avete fatto?

— Vi ho aspettato, Maria.

— Non vi piace giuocare?