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tusa: egli aveva amato il suo mestiere, ne aveva compreso solo il lato buono, gli era parso di non essere da meno degli altri uomini che lavoravano; ma le parole di Sofia gli avevano acuito l’ingegno, lacerato il velo che gli ottenebrava l’intelletto, suo padre gli aveva lasciato in eredità il ridicolo; quello che faceva ogni sera, era un mestiere indegno. Quindi nutriva nel cuore un odio incurabile per quanto prima era stata la sua consolazione; il palcoscenico stretto, polveroso; le quinte nere, sporche, soffocanti, piene di ragnateli; l’ambiente di petrolio, di fumo rossiccio, di respiri graveolenti; i compagni volgari, chiassosi, sboccati: le donne dipinte, incipriate colla farina, cariche di oro falso, che parlavano il dialetto, gridavano, si urtavano, litigavano: alcune viziose, altre semplicemente miserabili: la sua livrea bianca, la maschera nera che lo deformava, il berrettone obbligatorio; quei caratteri di ghiottone, di pauroso, di egoista, di imbroglione, che era costretto di rappresentare; quelle frasi a doppio senso, quei frizzi taglienti che addirittura portavano via il pezzo di carne, quell’amore esterno che doveva fingere — tutto, tutto gli sembrava ignobile. La sua vita della mattina lo ingentiliva e gli sviluppava tutte le facoltà morali; la vita di ogni sera lo avviliva, l’opprimeva, l’abbruttiva.