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che diventavano color ruggine. Silvia veniva là per stare tranquilla, colle mani incrociate sulle ginocchia, la testa appoggiata allo sportello di legno e lo sguardo errante nel vuoto. Nella stagione estiva vi era un treno che giungeva da Roma alle sette meno un quarto, ed ella abitava abbastanza vicino alla stazione per udirne tutti i rumori; prima un fischio dalla campagna, debole, lontanissimo, ed in risposta sulla stazione tre squilli argentini della campanella; indi un fragore cupo, sotterraneo, come il colossale respiro di un mostro, un respiro che si calmava, a poco a poco, come il treno entrava nella stazione. A tender bene l’orecchio si ascoltava la cascata dell’acqua della macchina che si riforniva, qualche passeggero scendeva, vi era una pausa silenziosa, la campanella salutava coi suoi tre squilli vibrati il treno che se ne andava; esso diceva addio con un fischio rauco, quasi disperato, l’affannoso soffio ricominciava, cresceva e si allontanava; il treno era partito, la stazione deserta. Nell’inverno, anche questo mancava, cambiandosi l’orario.

Le stagioni buone o cattive si susseguivano, la pioggia ed il sole si alternavano con dignitosa equità, i treni arrivavano, si rifornivano d’acqua, lasciavano scendere qualche viaggiatore e