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silvia | 137 |
tire il damasco giallo sbiadito dei mobili, copertine per le fiere di beneficenza, copertoni per i letti alti e larghi degli zii; quattro volte all’anno la confessione, brevi racconti di piccoli e stupidi incidenti. Uno zio morì, vi fu un funerale; Silvia serbò la sua calma e tolse per sei mesi i goletti bianchi e gli orecchini di oro: una cugina si maritò; Silvia ebbe un abito di seta rosa che mise una sola volta e che le stava molto male. Il padre ebbe il tifo, fu in pericolo di vita; la figliuola lo vegliò per dieci notti, gli prestò le cure più minute, senza segno di fatica; ma la premura dolce ed amorosa che consola l’ammalato, il sorriso di affetto, gli occhi umidi e commossi, l’ansia del core che si dipinge sul viso, mancavano in lei. Ai ventun anno soltanto, le venne dato il conto della sua dote. Poi nulla più di nuovo avvenne.
Ma Silvia, diventata il riassunto delle consuetudini provinciali, Silvia, l’esempio dell’obbedienza e del dovere, la pallida figura in cui si adombrava quella vita anemica, cretina, inerte, materiale, Silvia non aveva potuto rassegnarsi ad una delle più grandi leggi del paese, il sonno del pomeriggio. Questa infrazione alla regola la crucciava un poco ed aveva tentato di vincere una ripugnanza tutta fisica: dopo aver