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e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.

Me ne rammento una: aveva tre figli, un piccolino, specialmente, bellissimo. Aveva già due anni e gli dava ancora il latte, non aveva altro da dargli da mangiare; questo bimbetto l’aspettava, ogni sera, seduto sullo scalino del basso. Diceva il medico dell’assistenza pubblica: «levagli il latte che ti si ammala.» Ella chinava il capo: non poteva levargli il latte. Si ammalò di tifo, il bimbo; le morì. Ella mondava le patate, in una cucina, e si lamentava sottovoce: «figlio mio, figlio mio, io t’aveva da accide, io t’aveva da fa muri! O che mamma cana che ssò stata! Figlio mio, e chi m’aspetta cchiù, la sera, mmocc’a porta?

Il lavoro dei fanciulli? Ahimè, le madri sono molto contente, quando un cocchiere signorile