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testolina alquanto piegata sull’omero, le palpebre che battevano, colpite dalla luce più viva, sugli occhi illanguiditi come avesse sonno.

Bianca posò la mano sul braccio del cugino, il quale stava per svignarsela anche lui dal balcone, dolcemente, come una carezza, come una preghiera; tremava tutta, colla voce soffocata nella gola:

— Ninì!... Senti, Ninì!... fammi la carità!... Una parola sola!... Son venuta apposta.... Se non ti parlo qui è finita per me... è finita!...

— Bada!... c’è tanta gente!... — esclamò sottovoce il cugino, guardando di qua e di là cogli occhi che fuggivano. Ella gli teneva fissi addosso i begli occhi supplichevoli, con un grande sconforto, un grande abbandono doloroso in tutta la persona, nel viso pallido e disfatto, nell’atteggiamento umile, nelle braccia inerti che si aprivano desolate.

— Cosa mi rispondi, Ninì?... Cosa mi dici di fare?... Vedi... sono nelle tue braccia... come l’Addolorata!...

Egli allora cominciò a darsi dei pugni nella testa, commosso, col cuore gonfio anch’esso, badando a non far strepito e che non sopraggiungesse nessuno nel balcone. Bianca gli fermò la mano.

— Hai ragione!... siamo due disgraziati!... Mia madre non mi lascia padrone neanche di soffiarmi il naso!... Capisci? capisci?... Ti pare che non ci pensi a te?... Ti pare che non ci pensi?... La notte... non