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tava la risposta che gli dovevano, infine. Non c’era da scherzare!
— No, no... C’è tempo. Simili malattie durano anni e anni... Però... certo... premunirsi... sistemare gli affari a tempo... non sarebbe male...
— Ho inteso, — ripetè don Gesualdo col naso fra le coperte. — Vi ringrazio, signori miei.
Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una specie di rancore, qualcosa che gli faceva tremare le mani e la voce, e trapelava dagli occhi socchiusi. Fece segno al genero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al letto, a quattr’occhi, da solo a solo.
— Finalmente... questo notaro... verrà, sì o no? Devo far testamento... Ho degli scrupoli di coscienza... Sissignore!... Sono il padrone, sì o no?... Ah... ah... stai ad ascoltare anche tu?...
Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto, col viso fra le materasse, singhiozzando e disperandosi. Il genero lo chetava dall’altra parte. — Ma sì, ma sì, quando vorrete, come vorrete. Non c’è bisogno di far delle scene... Ecco in che stato avete messo la vostra figliuola!...
— Va bene! — seguitò a borbottare lui. — Va bene! Ho capito!
E volse le spalle, tal quale suo padre, buon’anima. Appena fu solo cominciò a muggire come un bue, col naso al muro. Ma poi se veniva gente, stava zitto.