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gliuola. Lo stesso duca, all’ora di pranzo, si vestiva come se andasse a nozze.

Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s’era fatto animo per contentare la figliuola, e s’era messo in gala anche lui per venire a tavola, legato e impastoiato, con un ronzìo nelle orecchie, le mani esitanti, l’occhio inquieto, le fauci strette da tutto quell’apparato, dal cameriere che gli contava i bocconi dietro le spalle, e di cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento e togliervi la roba dinanzi. L’intimidiva pure la cravatta bianca del genero, le credenze alte e scintillanti come altari, e la tovaglia finissima, che s’aveva sempre paura di lasciarvi cadere qualche cosa. Tanto che macchinava di prendere a quattr’occhi la figliuola, e dirle il fatto suo. Il duca, per fortuna, lo tolse d’impiccio, dicendo ad Isabella, dopo il caffè, col sigaro in bocca e il capo appoggiato alla spalliera del seggiolone:

— Mia cara, d’oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà nelle sue stanze. Avrà le sue ore, le sue abitudini... Poi, col regime speciale che richiede il suo stato di salute...

— Certo, certo, — balbettò don Gesualdo. — Stavo per dirvelo... Sarei più contento anch’io... Non voglio essere d’incomodo...

— No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacere, caro mio.