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che deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un passo sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo.

Di lì a qualche giorno arrivò il duca di Leyra, chiamato per espresso, e s’impadronì del suocero e della casa, dicendo che voleva condurselo a Palermo e farlo curare dai migliori medici. Il poveretto, ch’era ormai l’ombra di sè stesso, lasciava fare; riapriva anzi il cuore alla speranza; intenerivasi alle premure del genero e della figliuola che l’aspettava a braccia aperte. Gli pareva che gli tornassero già le forze. Non vedeva l’ora d’andarsene, quasi dovesse lasciare il suo male lì, in quella casa e in quei poderi che gli erano costati tanti sudori, e che gli pesavano invece adesso sulle spalle. Il genero intanto occupavasi col suo procuratore a mettere in sesto gli affari. Appena don Gesualdo fu in istato di poter viaggiare, lo misero in lettiga e partirono per la città. Era una giornata piovosa. Le case note, dei visi di conoscenti che si voltavano appena, sfilavano attraverso gli sportelli della lettiga. Speranza, e tutti i suoi, in collera dacchè era