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grapparsi alla vita, i bocconi più rari, senza chiedere quel che costassero, gli si mutavano in veleno; tornava a rigettarli come roba scomunicata, più nera dell’inchiostro, amara, maledetta da Dio. E intanto i dolori e la gonfiezza crescevano: una pancia che le gambe non la reggevano più. Bomma, picchiandovi sopra, una volta disse: — Qui c’è roba.
— Che volete dire, vossignoria? — balbettò don Gesualdo, balzando a sedere sul letto, coi sudori freddi addosso.
Bomma lo guardò bene in faccia, accostò la seggiola, si voltò di qua e di là per vedere s’erano soli.
— Don Gesualdo, siete un uomo... Non siete più un ragazzo, eh?
— Sissignore, — rispose lui con voce ferma, calmatosi a un tratto, col coraggio che aveva sempre avuto al bisogno. — Sissignore, parlate.
— Bene, qui ci vuole un consulto. Non avete mica una spina di fico d’India nel ventre! È un affare serio, capite! Non è cosa per la barba di don Margheritino o di qualcun altro... sia detto senza offenderli, qui in confidenza. Chiamate i migliori medici forestieri, don Vincenzo Capra, il dottor Muscio di Caltagirone, chi volete... Denari non ve ne mancano...
A quelle parole don Gesualdo montò in furia: — I denari!... Vi stanno a tutti sugli occhi i denari che ho guadagnato!... A che mi servono... se non posso