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una catinella d’acqua sporca. Lo stesso canonico Lupi aveva dovuto mettersi la coda fra le gambe, e non era tornato a fare il generoso colla roba altrui, ora che Ciolla e i più facinorosi erano partiti a cercar fortuna in città, con bandiere e trombette. Il canonico, onde chetare gli altri, aveva preso il ripiego di sortire in processione, colla disciplina e la corona di spine; e così gli altri si sfogavano in feste e quarant’ore, mentre lui andava predicando la fratellanza e l’amore del prossimo.

— Però un baiocco non lo mette fuori! — sbraitava comare Speranza. — E questo va bene. Ma se torna a fare il camorrista, qui da noi, lo ricevo come va... tal quale Vito Orlando!

Intanto la casa di don Gesualdo era messa a sacco e ruba egualmente. Vino, olio, formaggio, pezze di tela anche, sparivano in un batter d’occhio. Dalla Canziria e da Mangalavite giungevano fattori e mezzadri a reclamare contro i figliuoli di massaro Fortunato Burgio che comandavano a bacchetta, e saccheggiavano i poderi dello zio, quasi fosse già roba senza padrone. Lui, poveraccio, confinato in letto, si rodeva in silenzio; non osava ribellarsi al cognato e alla sorella; pensava ai suoi guai. Ci aveva un cane, lì nella pancia, che gli mangiava il fegato, il cane arrabbiato di San Vito martire, che lo martirizzava anche lui. Inutilmente Speranza, amorevole, cercava erbe