Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/468


— 460 —

perciò l’avevano abbandonato, onde non esser visti di cattivo occhio. E Zacco correva davvero un brutto rischio continuando ad andare da lui e a condurgli tutta la famiglia. — Peccato che con voi ci si rimette il ranno e il sapone! — gli disse però più di una volta. Sua moglie infine, vedendo che non si veniva a una conclusione con quell’uomo, lasciò scoppiare la bomba, un giorno che don Gesualdo s’era appisolato sul canapè, giallo come un morto, e la sua ragazza gli faceva da infermiera, messa a guardia accanto alla finestra.

— Scusatemi, cugino! Sono madre, e non posso più tacere, infine... Tu, Lavinia, vai di là, chè ho da parlare col cugino don Gesualdo... Ora che non c’è più la mia ragazza, apritemi il cuore, cugino mio... e ditemi chiaro la vostra intenzione... Quanto a me ci avrei tanto piacere... ed anche il barone mio marito... Ma bisogna parlarci chiaro...

Il poveraccio spalancò gli occhi assonnati, ancora disfatto dalla colica: — Eh? Che dite? Che volete? Io non vi capisco.

— Ah! Non mi capite? Allora che ci sta a far qui la mia Lavinia? Una zitella! Siete vedovo finalmente, e gli anni del giudizio li dovete anche avere, per pigliare una risoluzione, e sapere quel che volete fare!

— Niente. Io non voglio far niente. Voglio stare in pace, se mi ci lasciano stare...