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lare più forte erano i debitori che s’erano mangiato il grano in erba prima della messe. Gli rinfacciavano pure di essere il più tenace a non voler che gli altri si pigliassero le terre del comune, ciascuno il suo pezzetto. Non si sapeva donde fosse partita l’accusa; ma ormai era cosa certa. Lo dicevano tutti: il canonico Lupi armato sino ai denti, il barone Rubiera colla cacciatora di fustagno, come un povero diavolo. Essi erano continuamente in mezzo ai capannelli, alla mano e bonaccioni, col cuore sulle labbra: — Quel mastro-don Gesualdo sempre lo stesso! aveva fatto morire la moglie senza neppure chiamare un medico da Palermo! Una Trao! Una che l’aveva messo all’onore del mondo! A che l’era giovato essere tanto ricca? — Il canonico si lasciava sfuggire dell’altro ancora, in confidenza: Le stesse messe in suffragio dell’anima avevano lesinato alla poveretta! — Lo so di certo. Sono stato in sagrestia. Se non ha cuore neppure pel sangue suo!... Non mi fate parlare, chè domattina devo dir messa! — Nobili e plebei, passato il primo sbigottimento, erano diventati tutti una famiglia. Adesso i signori erano infervorati a difendere la libertà; preti e frati col crocifisso sul petto, o la coccarda di Pio Nono, e lo schioppo ad armacollo. Don Nicolino Margarone s’era fatto capitano, cogli speroni e il berretto gallonato. Donna Agrippina Macrì preparava filacce e parlava d’andare al campo, appena cominciava la guerra. La