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Zacco erano pallide della nottata persa, e donna Lavinia non si reggeva più in piedi. Sopraggiunse il marchese Limòli insieme al confessore. Donna Agrippina allora li mise fuori tutti quanti. Don Gesualdo, dietro a quell’uscio chiuso, si sentiva un gruppo alla gola, quasi gli togliessero prima del tempo la sua povera moglie.
— Ah!... — borbottò il marchese. — Che commedia, povera Bianca! Noi restiamo qui per assistere ogni giorno alla commedia, eh, don Ferdinando!... Anche la morte s’è scordata che ci siamo al mondo noi!...
Don Ferdinando stava a sentire, istupidito. Tratto tratto guardava timidamente di sottecchi il cognato che aveva gli occhi gonfi, la faccia gialla e ispida di peli, e faceva atto d’andarsene, impaurito.
— No, — disse il marchese. — Non potete lasciare la sorella in questo punto. Siete come un bambino, caspita!
Entrò in quel mentre il barone Mèndola, col fiato ai denti, cominciando dallo scusarsi a voce alta:
— Mi dispiace... Non ne sapevo nulla... Non credevo... — Poi, vedendosi intorno quei visi e quel silenzio, abbassò la voce e andò a finire il discorso in un angolo, all’orecchio del barone Zacco. Costui tornava a parlare della nottata che avevano persa: le sue ragazze senza chiudere occhio, Lavinia che non si reggeva in piedi. Don Gesualdo guardava è vero stra-