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Don Gesualdo continuava a stringersi nelle spalle, come uno che non gliene importa nulla oramai, tutto per la poveretta ch’era in fin di vita. Dopo un po’ giunsero la moglie e le figlie del barone Zacco, vestite di casa, cogli scialli giù pel dorso, le facce lunghe, senza salutar nessuno. Si vedeva ch’era finita. La baronessa andava a parlare ogni momento sottovoce col marito. Donna Lavinia s’impadronì delle chiavi. A quella vista don Gesualdo si sbiancò in viso. Non ebbe il coraggio neppure di chiedere s’era giunta l’ora. Soltanto, cogli occhi lustri interrogava tutti quanti, ad uno ad uno.

Ma gli rispondevano con delle mezze parole. Il barone allungava il muso, sua moglie alzava gli occhi al cielo, colle mani giunte. Le ragazze, già prese dal sonno, stavano zitte sedute nella stanza accanto a quella dov’era l’ammalata. Verso mezzanotte, come la poveretta s’era chetata a poco a poco, don Gesualdo voleva mandarli a riposare.

— No, — disse il barone, — non vi lasceremo solo questa notte.

Allora don Gesualdo non fiatò più, giacchè non c’era più speranza. Si mise a passeggiare in lungo e in largo, a capo chino, colle mani dietro la schiena. Di tanto in tanto si chinava sul letto della moglie. Poi tornava a passeggiare nella stanza vicina, borbottava fra di sè, scrollava il capo, si stringeva nelle