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voi!... — Quindi lo tirò in disparte, vicino al canterano dov’era l’orologio fermo, parlandogli piano, con le mani negli occhi. Don Gesualdo stava zitto, lisciandosi il mento, con quel risolino calmo che faceva schiattare la gente. I due baroni da lontano tenevano gli occhi fissi su di lui, come due mastini. Infine egli scosse il capo.
— No! no! Ditegli al canonico Lupi che denari non ne metto fuori più per simili pasticci. Le terre se le pigli chi vuole... Io ho le mie...
Gli altri gli si rivoltarono contro tutti d’accordo, vociando, eccitandosi l’un l’altro. Zacco, adesso che aveva capito di che si trattava, scalmanavasi più di tutti: — Una pensata seria! Da uomo con tanto di barba! Il miglior modo per evitare quella birbonata di dividere fra i nullatenenti i fondi del comune!... Capite?... Allora vuol dire che il mio non è più mio, e ciascuno vuole la sua parte!... — Don Gesualdo, duro, scrollava il capo; badava a ripetere: — No! no! non mi ci pigliano! — Tutt’a un tratto il barone Zacco afferrò don Ninì per la sciarpa e lo spinse verso il canapè quasi volesse mangiarselo, sussurrandogli nell’orecchio:
— Volete sentirla? Volete che ve la canti? È segno che quello lì ci ha il suo fine per farci rimaner tutti quanti siamo con tanto di naso!... Lo conosco!...
Le signore Zacco allo strepito s’erano affacciate