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sè; ma non si dava pace; parevagli che la gente lo segnasse a dito; sentivasi montare il sangue al viso quando ci pensava, da solo, o anche se incontrava quell’infame della Cirmena. Lui era un villano; non c’era avvezzo a simili vergogne! Intanto la figlia duchessa gli costava un occhio. Prima di tutto le terre della Canziria, d’Alia e Donninga che le aveva assegnato in dote, e gli facevano piangere il cuore ogni qualvolta tornava a vederle, date in affitto a questo e a quello, divise a pezzi e bocconi dopo tanti stenti durati a metterle insieme, mal tenute, mal coltivate, lontane dall’occhio del padrone, quasi fossero di nessuno. Di tanto in tanto gli arrivavano pure all’orecchio altre male nuove che non gli lasciavano requie, come tafani, come vespe pungenti; dicevasi in paese che il signor duca vi seminasse a due mani debiti fitti al pari della grandine, la medesima gramigna che devastava i suoi possessi e si propagava ai beni della moglie peggio delle cavallette. Quella povera Canziria che era costata tante fatiche a don Gesualdo, tante privazioni, dove aveva sentito la prima volta il rimescolio di mettere nella terra i piedi di padrone! Donninga per cui si era tirato addosso l’odio di tutto il paese! le buone terre dell’Alìa che aveva covato dieci anni cogli occhi, sera e mattina, le buone terre al sole, senza un sasso, e sciolte così che le mani vi sprofondavano e le sentivano