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lazzanti di piume, di nastri, di ricciolini diventati neri col tempo, grasse da scoppiare, color di mattone in viso. Tutte che cicalavano, e si davano un gran da fare per dar nell’occhio ai signori forestieri. Il duca s’era tirato dietro lo zio balì, onde sembrar più giovane — dicevano le male lingue: un vecchietto grasso e rubicondo che doveva lasciargli l’eredità, e intanto faceva la corte alle signore — come non sanno farla più al giorno d’oggi! — osservò la Capitana.

Sul più bello, mentre la statua dell’Evangelista correva balzelloni da Gesù a Maria, e il popolo gridava: viva Dio resuscitato! capitò la carrozza nuova di don Gesualdo Motta. Lui con la giamberga dai bottoni d’oro e il solitario al petto della camicia, la moglie in gala anche lei, poveretta, che la veste nuova le piangeva addosso, allampanata, ridotta uno scheletro, e la figliuola con un vestito nuovo, fatto venire apposta da Palermo. La folla si apriva per lasciarli passare, senza bisogno di spintoni. Dei curiosi guardavano a bocca aperta. Lo stesso duca domandò chi fossero: — Ah, una Trao! Si vede subito, quantunque abbia l’aria un po’ sofferente, povera signora. — Il marchese Limòli ringraziava lui, con un cenno del capo, e lo presentò alla nipote. Il duca e il balì di Leyra fecero un gruppo a parte, sul marciapiede del Caffè dei Nobili, colla famiglia di don