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non sapeva dire le sue ragioni. Santo, costretto a trovarsi faccia a faccia con suo fratello don Gesualdo, cominciò dallo scusarsi:

— Che vuoi?... Io non ci ho colpa. Mi condussero dall’avvocato... Cosa dovevo fare?... Perchè l’abbiamo chiesto il consiglio dell’avvocato?... Quello che mi dice l’avvocato io fo....

Don Gesualdo si mostrava arrendevole. Non che ci fosse obbligato, no! — la legge lui la conosceva. — Ma per buon cuore. Il bene che aveva potuto fare ai suoi parenti l’aveva sempre fatto, e voleva continuare a farlo. Lì un battibecco di prove e controprove che non finivano più. Speranza che vedeva sfumare la sua parte dell’eredità se si parlava di buon cuore, se la pigliava col marito e coi figliuoli i quali non sapevano difendersi. Anche Santo stava zitto, come un ragazzo che ne ha fatta una grossa. Fortuna che c’era lei, a dire il fatto suo:

— Che volete darci, la limosina? Qualche salma di grano a comodo vostro, di tanto in tanto? qualche salma di vino, quello che non potete vendere?

— Cosa vuoi che ti dia, l’Alia o Donninga? Vuoi che mi spogli io per empire il gozzo a voialtri che non avete fatto nulla? Ho figli. La roba non posso toccarla....

— La roba tua?... sentite quest’altra! Allora vuol dire che nostro padre buon’anima non ha lasciato