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tini minuti dalle mani febbrili di lui, nelle lunghe ore d’attesa, nel lavorìo macchinale delle fantasticherie. S’udiva il martellare di una scure in lontananza; poi una canzone malinconica che si perdeva lassù, nella viottola. Che agonìa lunga! Il sole abbandonava lentamente il sentiero; moriva pallido sulla rupe brulla di cui le forre sembravano più tristi, ed ella aspettava ancora, aspettava sempre.

— Signor don Gesualdo... Venite qua, se permettete... Ho da parlarvi. — Nanni l’Orbo, continuando a chiamarlo, dall’aia, affettava di non poter mettere il piede nel cortile, coll’aria misteriosa, finchè il padrone andò a sentire quel che diavolo volesse, dandogli una buona strapazzata, per cominciare:

— T’ho detto tante volte di non lasciarti vedere da queste parti! Che diavolo!... Se lo fai apposta...

— Nossignore. Appunto, vi ho chiamato qui fuori. Dobbiamo parlare da solo a solo, per quel che ho da dirvi... Qui nel giardino. Siamo aspettati.

C’erano infatti Nunzio e Gesualdo di Diodata, vestiti da festa, colle mani in tasca, e un fazzolettino nero al collo. Compare Nanni lo fece notare al padrone. — Il sangue è sangue. Avete da ridirci? Tutti e due... hanno voluto portare il lutto alla buon’anima di vostro padre... per rispetto, senza secondi fini... Soltanto, vossignoria potete aiutarli senza mettere mano alla tasca... Ecco, loro vorrebbero a mezzadria