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per guardar le stelle. — Speranza ogni tanto s’accostava al malato in punta di piedi, lo toccava, lo chiamava adagio adagio; ma lui zitto. Poi tornava a discorrere sottovoce col marito che aspettava tranquillamente, accoccolato sullo scalino, dormicchiando. Gesualdo stava seduto dall’altra parte col mento fra le mani. In fondo allo stanzone si udiva il russare di Santo. I nipoti erano già partiti colla roba, insieme agli altri inquilini e un gatto abbandonato s’aggirava miagolando per la fattoria, come un’anima di Purgatorio: una cosa che tutti alzavano il capo trasalendo, e si facevano la croce al vedere quegli occhi che luccicavano nel buio, fra le travi del tetto e i buchi del muro; e sulla parete sudicia vedevasi sempre l’ombra del berretto del vecchio, gigantesca, che non dava segno di vita. Poi, tre volte, si udì cantare la civetta.

Quando Dio volle, a giorno fatto, dopo un pezzo che il giorno trapelava dalle fessure delle imposte e faceva impallidire il lume posato sulla botte, Burgio si decise ad aprire l’uscio. Era una giornata fosca, il cielo coperto, un gran silenzio per la pianura smorta e sassosa. Dei casolari nerastri qua e là, l’estremità del paese sulla collina in fondo, sembravano sorgere lentamente dalla caligine, deserti e silenziosi. Non un uccello, non un ronzìo, non un alito di vento. Solo un fruscio fuggì spaventato fra le stoppie al—