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niva a portargli dei pezzi di carta che aveva trovato vicino alla fontana, dei calcinacci scrostati dal sedile, facendo il nesci:
— Don Gesualdo, che c’è stato vossignoria, lassù?... Alle volte.... per far quattro passi.... L’erba sulla spianata è tutta pesta, come ci si fosse sdraiato un asino. Ladri, no, eh?... Ho paura di quelli del colèra piuttosto.
— No.... di giorno?... che diavolo!... bestia che sei!... Non temere, qui stiamo cogli occhi aperti.
E ci stava davvero, con prudenza, per evitar gli scandali, aspettando che terminasse il colèra per scopare la casa, e finirla pulitamente con donna Sarina e tutti i suoi senza dar campo di parlare alle male lingue, rimbeccando la zia Cirmena che s’era messa a far la sapiente anche lei, a parlare col squinci e linci, tagliando corto a quelle chiacchiere sconclusionate che vi tiravano gli sbadigli dalle calcagna. Un giorno, presenti tutti quanti, sputò fuori il fatto suo.
— Ah.... le canzonette? Roba che non empie pancia, cari miei! — La zia Cirmena si risentì alfine: — Voi pigliate tutto a peso e a misura, don Gesualdo! Non sapete quel che vuol dire.... Vorrei vedervici!... — Egli allora, col suo fare canzonatorio, raccolse in mucchio libri e giornali ch’erano sul tavolino e glieli cacciò in grembo, a donna Sarina, ridendo ad alta voce, spingendola per le spalle quasi