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delle parole soavi, delle voci armoniose, dei versi che facevano piangere, come quelli che fiorivano in cuore al cugino La Gurna. Allora ripensava a quel giovinetto che non si vedeva quasi mai, che stava chiuso nella sua stanzetta, a fantasticare, a sognare come lei. Laggiù, dietro quel monticello, la stessa luna doveva scintillare sui vetri della sua finestra, la stessa dolcezza insinuarsi in lui. Che faceva? che pensava? Un brivido di freddo la sorprendeva di tratto in tratto come gli alberi stormivano e le portavano tante voci da lontano — Luna bianca, luna bella!... Che fai, luna? dove vai? che pensi anche tu? — Si guardava le mani esili e delicate, candide anch’esse come la luna, con una gran tenerezza, con un vago senso di gratitudine e quasi di orgoglio.

Poscia ricadeva stanca da quell’altezza, con la mente inerte, scossa dal russare del babbo che riempiva la casa. La mamma vicino a lui non osava neppure fare udire il suo respiro; come non osava quasi mostrare tutta la sua tenerezza alla figliuola dinanzi al marito, timida, con quegli occhi tristi e quel sorriso pallido che voleva dire tante cose nelle più umili parole: — Figlia! figlia mia!... — Soltanto la stretta delle braccia esili, e l’espressione degli sguardi che correvano inquieti all’uscio dicevano il resto. Quasi dovesse nascondere le carezze che faceva alla sua creatura, le mani tremanti che le cercavano il viso,