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dove il tramonto intristiva rapidamente la sera. Poi dei giorni sempre uguali, in quella tebaide; un sospetto continuo, una diffidenza d’ogni cosa, dell’acqua che bevevasi, della gente che passava, dei cani che abbaiavano, delle lettere che giungevano — un mucchio di paglia umida in permanenza dinanzi al cancello per affumicare tutto ciò che veniva di fuori, — le rare lettere ricevute in cima a una canna, attraverso il fumo — e per solo svago, il chiacchierìo della zia Cirmena, la quale arrivava ogni sera colla lanterna in mano e il panierino della calza infilato al braccio. Suo nipote l’accompagnava raramente; preferiva rimanersene in casa, a far l’orso e a pensare ai casi suoi o ai suoi morti, chissà... La zia Cirmena per scusarlo parlava del gran talento che aveva quel ragazzo, tutto il santo giorno chiuso nella sua stanzetta, col capo in mano, a riempire degli scartafacci, più grossi di un basto, di poesie che avrebbero fatto piangere i sassi. Don Gesualdo ci s’addormentava sopra a quei discorsi. La mamma parlava poco anche lei, sempre senza fiato, sempre fra letto e lettuccio. La sola che dovesse dar retta alla zia era lei, Isabella, soffocando gli sbadigli, dopo quelle giornate vuote. Alle sue amiche di collegio, disseminate anch’esse di qua e di là, non sapeva proprio cosa scrivere. Marina di Leyra le mandava ogni settimana delle paginette stemmate piene zeppe di avventure, di confidenze interessanti.