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— Signora baronessa, dove s’hanno a scaricare i muli? — disse Rosaria, grattandosi il capo.

— Vengo, vengo. Andiamo per di qua. Voialtri passerete pel cortile, quando avrete terminato.

Essa chiuse a catenaccio Giacalone e Vito Orlando dentro il magazzino, e s’avviò verso il portone.

La casa della baronessa era vastissima, messa insieme a pezzi e bocconi, a misura che i genitori di lei andavano stanando ad uno ad uno i diversi proprietari, sino a cacciarsi poi colla figliuola nel palazzetto dei Rubiera e porre ogni cosa in comune: tetti alti e bassi; finestre d’ogni grandezza, qua e là, come capitava; il portone signorile incastrato in mezzo a facciate da catapecchie. Il fabbricato occupava quasi tutta la lunghezza del vicoletto. La baronessa, discorrendo sottovoce col canonico Lupi, s’era quasi dimenticata del cugino, il quale veniva dietro passo passo. Ma giunti al portone il canonico si tirò indietro prudentemente: — Un’altra volta; tornerò poi. Adesso vostro cugino ha da parlarvi. Fate gli affari vostri, don Diego.

— Ah, scusate, cugino. Entrate, entrate pure.

Fin dall’androne immenso e buio, fiancheggiato di porticine basse, ferrate a uso di prigione, si sentiva di essere in una casa ricca: un tanfo d’olio e di formaggio che pigliava alla gola; poi un odore di muffa e di cantina. Dal rastrello spalancato, come dalla pro-