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nel 1837, quando in Palermo cominciavano già a correre le prime voci di colèra, e don Gesualdo era corso subito a prenderla. Fu come un urto al petto per la povera madre, dopo tanto tempo, quando udì fermarsi la lettiga dinanzi al portone. — Figlia mia! figlia mia! — colle braccia stese, le gambe malferme, precipitandosi per la scala. Isabella saliva correndo, colle braccia aperte anche lei. — Mamma! mamma! — E poi avvinghiate l’una al collo dell’altra, la madre sballottando ancora a destra e a sinistra la sua creatura come quand’era piccina.

Indi vennero le visite ai parenti. Bianca era tornata in forze per portare in trionfo la sua figliuola, in casa Sganci, in casa Limòli, da per tutto dove era stata bambinetta, prima d’entrare in collegio, ora già fatta grande, col cappellino di paglia, le belle treccie bionde — un fiore. Tutti si affacciavano per vederla passare. La zia Sganci, divenuta sorda e cieca, le tastò il viso per riconoscerla: — Una Trao! Non c’è che dire. — Lo zio marchese ne lodò gli occhi, degli occhi blù che erano due stelle. "Degli occhi che vedevano il peccato", disse il marchese, il quale aveva sempre pronta la barzelletta. Allorchè la condussero dallo zio don Ferdinando, Isabella che soleva spesso rammentare colle compagne la casa materna, negli sfoghi ingenui d’ambizione, provò un senso di sorpresa, di tristezza, di delusione al rivederla. Entrava chi voleva