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chi con lei mostravasi proprio quel che era, bonaccione, colla risata larga che mostrava i denti grossi e bianchi, passandosi anche la lingua sulle labbra, quasi gustasse già il dolce del boccone buono, da uomo ghiotto della roba.


Isabella fatta più grandicella passò dal Collegio di Maria al primo educatorio di Palermo. Un altro strappo per la povera mamma che temeva di non doverla più rivedere. Il marito, onde confortarla, in quello stato, le disse: — Vedi noi ci ammazziamo per fare il suo meglio, ciascuno come può, ed essa un giorno non penserà neppure a noi. Così va il mondo. Anzi devi metterti in testa che tua figlia non puoi averla sempre vicina. Quando si marita anderà via dal paese. Qui non ce n’è uno che possa sposarla, colla dote che le darò. Se ho fatto tanto per lei, voglio almeno sapere a chi lo dò il sangue mio. Adesso che ti parlo è già nato chi deve godersi il frutto delle mie fatiche, senza dirmi neppure grazie.

Aveva il cuore grosso anche lui, poveraccio, e se sfogavasi a quattr’occhi colla moglie alle volte, per discorrere, non si rifiutava però a fare ciò ch’era debito suo. Andava a trovare la sua ragazza a Palermo, quando poteva, quando i suoi affari lo permettevano, anche una volta all’anno. Isabella s’era fatta una bella fanciulla, un po’ gracile ancora, pallidina,