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sepolta viva nel seggiolone non lo lasciava padrone di un baiocco; si faceva dar conto di tutto; voleva che ogni cosa passasse sotto i suoi occhi; senza poter parlare, senza potersi muovere, si faceva ubbidire dalla sua gente meglio di prima. E attaccata alla sua roba come un’ostrica, ostinandosi a vivere per non pagare. Il debito intanto ingrossava d’anno in anno: una cosa che il povero don Ninì ci perdeva delle nottate intere, senza poter chiudere occhio, alle volte: e alla scadenza, capitale e usura, rappresentavano una bella somma. Il canonico Lupi, che andò in nome del baronello a chiedere dilazione al pagamento, trovò don Gesualdo peggio di un muro: — A che giuoco giochiamo canonico mio? Sono più di nove anni che non vedo nè frutti nè capitale. Ora mi serve il mio denaro, e voglio esser pagato.
Don Ninì pel bisogno scese anche all’umiliazione d’andare a pregare la cugina Bianca, dopo tanto tempo. La prese appunto da lontano. — Tanto tempo che non s’erano visti! Lui non aveva faccia di comparirle dinanzi, in parola d’onore! Non cercava di scolparsi. Era stato un ragazzaccio. Ora aveva aperto gli occhi, troppo tardi, quando non c’era più rimedio, quando si trovava sulle spalle il peso dei suoi errori. Ma proprio non poteva pagare in quel momento. — Son galantuomo. Ho di che pagare infine. Tuo marito sarà pagato sino all’ultimo baiocco. Ma in questo