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in casa colla giustizia e il notaro, maledicendo in cuor suo la prima donna e chi gliela aveva messa fra i piedi, turbato, se si appisolava un momento, da tanti brutti sogni: mastro-don Gesualdo, il debito, della gente che gli si accalcava addosso e gli empiva la casa, una gran folla.
Rosaria venne a bussargli all’uscio di buon mattino:
— Don Ninì! signor barone! venite a vedere... La padrona ha perso la parola!... Io ho paura, se vedeste...
La baronessa stava lunga distesa sul letto, simile a un bue colpito dal macellaio, con tutto il sangue al viso e la lingua ciondoloni. La bile, i dispiaceri, tutti quegli umori cattivi che doveva averci accumulati sullo stomaco, le gorgogliavano dentro, le uscivano dalla bocca e dal naso, le colavano sul guanciale. E come volesse aiutarsi, ancora in quello stato, come cercasse di annaspare colle mani gonfie e grevi, come cercasse di chiamare aiuto, coi suoni inarticolati che s’impastavano nella bava vischiosa.
— Mamma! mamma mia!
Don Ninì atterrito, ancora gonfio dal sonno, andava strillando per le stanze, dandosi dei pugni sulla testa, correndo al balcone e disperandosi mentre i vicini bussavano e tempestavano che il portone era chiuso a chiave. Da lì a un po’, medico, barbiere, parenti, curiosi, la casa si riempì di gente. Proprio il sogno di quella notte. Don Ninì narrava a tutti la stessa