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lunga distesa sul pavimento come all’ultimo atto di una tragedia, e Pallante che le tirava giù il vestito sulle calze, per correre a casa senza cappello. Colà ci fu una scena terribile fra madre e figlio. Lui da prima cercava di negare; poi montò su tutte le furie, si lagnò di esser tenuto come uno schiavo, peggio di un ragazzo, senza due tarì da spendere; e la baronessa minacciava di andare lei in persona dal notaro, per disporre della sua roba, così com’era, in sottana, a quell’ora stessa, se non volevano mandarlo a chiamare. Don Ninì allora scese a dar tanto di chiavistello al portone, e si mise la chiave in tasca, minacciando di rompere le ossa al garzone, se fiatava.

— Ah! questa è la ricompensa! — borbottò Alessi. — Un’altra volta ci vò davvero dal notaio.

Finalmente, per amore o per forza, riescirono a mettere in letto la baronessa, la quale si dibatteva e strillava che volevano farla morire di colpo per scialacquare la sua roba: — Mastro-don Gesualdo!... sì!... Lui se lo mangia il fatto mio! — Il figliuolo colle buone e colle cattive tentava di calmarla: — Non vedete che state poco bene? Volete ammalarvi per farmi dar l’anima al diavolo? — Poi tutta la notte non chiuse occhio, alzandosi ogni momento per correre ad origliare se sua madre strillava ancora, spaventato all’idea che udissero i vicini e gli venissero