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colica, gemendo e lamentandosi, mentre le usciva bava dalla bocca, e gli occhi le schizzavano fuori:

— Assassino! Figlio snaturato!... No! non me la faccio mangiare la mia roba!... Piuttosto la lascio ai poveri... ai conventi... Voglio far testamento!... Voglio far donazione!... Chiamatemi il notaro... subito!...

Don Ninì stava bisticciandosi colla sua Aglae, in quella stanzaccia di locanda che per lui era diventata un inferno dal momento in cui s’era messo sulle spalle il debito e mastro— don Gesualdo. Il letto in disordine, i vestiti sudici, i capelli spettinati, le carezze stesse di lei, i manicaretti cucinati dall’amico Pallante, gli si erano mutati in veleno, dacchè gli costavano cari. Al veder giungere Alessi che veniva a chiamarlo, parlando di notaro e di donazione, si fece pallido a un tratto. Invano la prima donna gli si avvinghiò al collo, discinta, senza badare al Pallante che accorreva dalla cucina nè ad Alessi il quale spalancava gli occhi e si fregava le mani.

— Ninì! Ninì mio!... Non mi abbandonare in questo stato!...

— Malannaggia! Lasciatemi andare... tutti quanti siete!... Vi pare che si scherzi!... Quella donna è capace di tutto!

Don Ninì, ripreso interamente dall’amor della roba, non si lasciò commuovere neppure dalla scena dello svenimento. Piantò lì dov’era la povera Aglae