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storta fin la trave del tetto, ora ch’è nata una bambina in questa casa!
Barabba e il cacciatore della baronessa Mèndola avevano dato una mano a scopare, a spolverare, a rimettere in gambe l’altare sconquassato, chiuso da tant’anni nell’armadio a muro della sala grande che serviva di cappella. La sala stessa era ancora parata a lutto, qual’era rimasta dopo la morte di don Diego, coi ritratti velati e gli alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funerale, com’era l’uso nelle famiglie antiche. Don Ferdinando, raso di fresco, con un vestito nero del cugino Zacco che gli si arrampicava alla schiena andava ficcando il naso da per tutto, col viso lungo, le braccia ciondoloni dalle maniche troppo corte, inquieto, sospettoso, domandando a ciascuno:
— Che c’è? Cosa volete fare?
— Ecco vostro cognato, — gli disse la zia Sganci entrando nella sala insieme a don Gesualdo Motta. — Ora dovete abbracciarvi fra di voi, e non tenere in corpo il malumore, con quella creaturina che c’è di mezzo.
— Vi saluto, vi saluto, — borbottò don Ferdinando; e gli voltò le spalle.
Ma gli altri parenti che avevano più giudizio, facevano buon viso a don Gesualdo: Mèndola, i cugini Zacco, tutti quanti. Già i tempi erano mutati; il paese