Il notaro la pigliava allegramente. Narrava che a Palermo avevano fatto il pasticcio; avevano ammazzato il principe di Aci e s’erano impadroniti di Castellammare: — Chi comanda adesso è un prete, certo Ascenso!
— Ah? — rispose il canonico che si sentiva in causa...— Ah?
— Silenzio per ora!... Andiamo adagio! Sapete com’è?... a chi deve prima attaccare il campanello al gatto! E ogni galantuomo non vorrebbe mettere il piede in trappola. Ma se siamo in tanti... C’è anche il barone Zacco stasera.
— Che aspettiamo ad entrare, signori miei? — interruppe don Gesualdo a quella notizia, coraggioso come un leone.
Quando tornarono ad uscire, dopo un gran pezzo, erano tutti più morti che vivi. Bomma sforzavasi di fare il gradasso; Tavuso non diceva una parola; e il notaro stava soprapensieri anche lui. Zacco corse ad attaccarsi al braccio di don Gesualdo, quasi fossero divenuti fratelli davvero. — Sentite, cugino, ho da parlarvi. — E seguitarono ad andare a braccetto in silenzio.
— Ssst!... un fischio!... verso i Cappuccini!... — Il barone mise mano alla pistola: tutti con un gran batticuore. Si udirono abbaiare dei cani. — Fermo!... — esclamò il canonico sottovoce, afferrando il braccio