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di trattenerlo per la manica della giacca, come un pazzo.

— Signor don Filippo!... sono il padre, sì o no?... comando io, sì o no?... Se mio figlio Gesualdo è matto!... se vuol rovinarci tutti!... c’è la forza, signor don Filippo!... Mandate a chiamare don Liccio Papa!... — Speranza, dall’uscio, col lattante al petto, che si strappava i capelli e urlava quasi l’accoppassero. — Per l’amor di Dio! per l’amor di Dio! — supplicava il canonico, correndo dall’uno all’altro. — I denari del ponte!... Vuole la mia rovina!... Nemico di suo padre stesso! — urlava mastro Nunzio. — Erano forse denari vostri? — scappò infine a gridare il canonico; — non era sangue del figlio vostro? non li ha guadagnati lui, col suo lavoro? — Tutti quanti erano in piedi, vociando. Si udiva Canali strillare più forte degli altri per chetare don Ninì Rubiera. Il barone Zacco avvilito, se ne stava colle spalle al muro, e il cappello sulla nuca. Il notaro era sceso a precipizio, facendo gli scalini a quattro a quattro, onde correre dalla baronessa. Per le scale era un via vai di curiosi: gente che arrivava ogni momento attratta dal baccano che udivasi nel Palazzo di Città. Santo Motta dalla piazza additava il balcone, vociando a chi non voleva saperle le prodezze del fratello. S’era affacciata perfino donna Marianna Sganci, coll’ombrellino, mettendosi la mano dinanzi agli occhi.