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— Benone! — aggiunse don Gesualdo. — Quand’è così scrivete pure che offro sei onze e quindici a salma.

— Pazzo! assassino! nemico di Dio! — si udì gridare mastro Nunzio nella folla dell’altra sala.

Successe un parapiglia. Il notaro e Peperito spinsero fuori dell’uscio il baronello che strepitava, agitando le braccia in aria. Dall’altro canto il canonico, convulso, si gettò su don Gesualdo, stringendoglisi addosso, sedendogli quasi sulle ginocchia, colle braccia al collo, scongiurandolo sottovoce, in aria disperata, con parole di fuoco, ficcandoglisi nell’orecchio, scuotendolo pei petti della giacca, quasi volesse strapazzarlo, per fargli sentir ragione.

— Una pazzia!... Dove andiamo, caro don Gesualdo?...

— Non temete, canonico. Ho fatto i miei conti. Non mi scaldo la testa, io.

Don Filippo Margarone suonava il campanello da cinque minuti per avere un bicchier d’acqua. I suoi colleghi s’asciugavano il sudore anch’essi, trafelati. Solo don Gesualdo rimaneva seduto al suo posto come un sasso, accanto al sacchetto di doppie. A un certo punto, dalla baraonda ch’era nell’altra stanza, irruppe nella sala mastro Nunzio Motta, stralunato, tremante di collera, coi capelli bianchi irti sul capo, rimorchiandosi dietro il genero Burgio che tentava