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vuoti, levando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni che faceva ballare il pavimento.

— Ecco! ecco! Or ora rovina il tetto! — sghignazzava Santo Motta, sgambettando in mezzo all’acqua: delle pozze d’acqua ad ogni passo, fra i mattoni smossi o mancanti. Don Diego e don Ferdinando, spinti, sbalorditi, travolti in mezzo alla folla che rovistava in ogni cantuccio la miseria della loro casa, continuando a strillare: — Bianca!... Mia sorella!...

— Avete il fuoco in casa, capite! — gridò loro nell’orecchio Santo Motta. — Sarà una bella luminaria con tutta questa roba vecchia!

— Per di qua, per di qua! — si udì una voce dal vicoletto. — Il fuoco è lassù, in cucina...

Mastro Nunzio, il padre di Gesualdo, arrampicatosi su di una scala a piuoli, faceva dei gesti in aria, dal tetto della sua casa, lì dirimpetto. Giacalone aveva attaccata una carrucola alla ringhiera del balcone per attinger acqua dalla cisterna dei Motta. Mastro Cosimo, il legnaiuolo, salito sulla gronda, dava furiosi colpi di scure sull’abbaino.

— No! no! — gridarono di sotto. — Se date aria al fuoco, in un momento se ne va tutto il palazzo!

Don Diego allora si picchiò un colpo in fronte, bal-