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Don Gesualdo, scendendo le scale, brontolava ancora:

— Perchè dovrei averli tutti contro?... Non fo male a nessuno... Fo gli affari miei...

— Eh, caro don Gesualdo! — scappò a dire infine il canonico. — Gli affari vostri fanno a pugni con gli affari degli altri, che diavolo!... Apposta bisogna tirarli dalla vostra... Fra di loro si danno la mano... son tutti parenti... Voi siete l’estraneo... siete il nemico, che diavolo!

Il canonico si fermò su due piedi, in mezzo alla piazzetta, di fronte al palazzo dei Trao, alto, nero e smantellato, e guardando fisso don Gesualdo, cogli occhietti acuti di topo che sembrava volessero ficcarglisi dentro come due spilli, il viso a lama di coltello che sfuggiva da ogni parte:

— Vedete?... quando sarete entrato nel campo anche voi... Quella è la dote che vi porterebbe donna Bianca!... È denaro sonante per voi che avete le mani in tanti affari.

Mastro-don Gesualdo tornò a lisciarsi il mento, come quando stava a combinare qualche negozio con uno più furbo di lui; guardò il palazzo; guardò poi il canonico, e rispose:

— Però caparra in mano, eh? signor canonico? Prima voglio vedere come la pigliano i parenti di lei.