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giastri e stralunati, che sembravano quelli di un pazzo in quella faccia incartapecorita di asmatico, ripeteva come un’anatra:
— Di qua! di qua!
Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che traballava. Una vera bicocca quella casa: i muri rotti, scalcinati, corrosi; dalle fenditure che scendevano dal cornicione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lo stemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito, al di sopra della porta. Mastro-don Gesualdo voleva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna accatastata nel cortile.
— Ci vorrà un mese! — rispose Pelagatti il quale stava a guardare sbadigliando, col pistolone in mano.
— Santo e santissimo! Contro il mio muro è accatastata!... Volete sentirla, sì o no?
Giacalone diceva piuttosto di abbattere la tettoia; don Luca il sagrestano assicurò che pel momento non c’era pericolo: una torre di Babele!
Erano accorsi anche altri vicini. Santo Motta colle mani in tasca, il faccione gioviale e la barzelletta sempre pronta. Speranza, sua sorella, verde dalla bile, strizzando il seno vizzo in bocca al lattante, sputando veleno contro i Trao: — Signori miei... guardate un po’!... Ci abbiamo i magazzini qui accanto! — E se la prendeva anche con suo marito Burgio, ch’era lì in maniche di camicia: — Voi non dite