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Mastro Nunzio, appoggiato allo stipite dell’uscio, stava masticando da un po’ la sua idea, fra le gengive sdentate. Infine la buttò fuori, rivolgendosi verso il figliuolo all’improvviso:

— E sai cos’ho da dirti? Che non ne voglio più sapere di questo ponte della disgrazia! Piuttosto faremo un mulino, coi materiali che riusciremo a mettere in salvo... Un affare sicuro quello...

— Un’altra adesso! — saltò su Gesualdo. — Siete ammattito davvero? E la cauzione? Volete che ci perda anche quella? Se lasciassi fare a voi!... Quando presi a fabbricare dei mulini, mi toccava sentire che era la rovina... Ora che vi siete persuaso, non vorreste far altro... come se tutto il paese dovesse macinarsi le ossa notte e giorno, e le mie prima degli altri!... santo e santissimo!

La lite s’accese un’altra volta. Mastro Nunzio che strillava e si lagnava di non esser rispettato. — Vedete se sono un fantoccio?... un pulcinella?... il capo della casa... signori miei!... guardate un po’!... — Gesualdo per finirla saltò di nuovo sulla mula, verde dalla bile, e se ne andò mentre l’acqua veniva ancora giù dal cielo come Dio la mandava, col capo nelle spalle, bagnato sino alle ossa, il cuore dentro più nero del cielo nuvolo che aveva dinanzi agli occhi; il paese grigio e triste nella pioggia anch’esso, lassù in cima al monte, col suono del mezzogiorno