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salvo delle travi. A seconda del vento giungevano pure di lassù, donde veniva la corrente, delle voci che sembravano cadere dal cielo, delle grida disperate, e un suono di corno rauco.

Gesualdo, curvo sotto l’acquazzone, sfangando sulla riva, aiutava a tirare in salvo i legnami dell’armatura che la corrente furiosa seguitava a scuotere e a sfasciare. — A me!... santo Dio!... non vedete che si porta anche quelli?... — A un certo punto barcollò e stava per affondare nella melma spumosa che dilagava.

— Santo diavolone! Che volete lasciarvi anche la pelle? — urlò il capomastro afferrandolo pel bavero. — Un altro po’ strascinate me pure alla perdizione!

Egli, pallido come un morto, cogli occhi stralunati, i capelli irti sul capo, quasi colla schiuma alla bocca, rispondeva:

— Lasciatemi crepare! A voi non ve ne importa!... Dite così perchè voi non ci avete il sangue vostro in mezzo a quell’acqua!... Lasciatemi crepare!

Mastro Nunzio, vedendo smaniare a quel modo il suo figliuolo, voleva buttarsi a capo fitto giù nella corrente addirittura: — Per non stare a sentir lui!... Adesso mi dirà ch’è tutta colpa mia!... vedrete!... Non son padrone di muovere un dito in casa mia... Sono padrone da burla... Allora è meglio finirla in una volta!... — E andava tentando l’acqua col piede.