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grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. — Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria! — trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi — le liti fra tutti loro, quando gli affari non andavano bene. — Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. — Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. — Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto “vi saluto„; le strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce — la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore...